mercoledì 7 dicembre 2011

Lacrime & Sangue (di chi?)

Parto dal presupposto che un tecnico che va a governare diventa automaticamente un politico. Il tecnico politicamente equidistante credo non esista, come nella pratica non può esistere neanche un governo puramente tecnico.

Manca innanzitutto la tanto invocata tassa patrimoniale.

Certo con una base parlamentare del genere sarebbe stato difficile farla passare (è cambiato il governo ma la maggioranza parlamentare è la stessa che appoggiava quello precedente, ad esclusione della Lega), con Alfano in primis che aveva detto che con la patrimoniale saltava l’appoggio al governo. In ogni caso questo è già un passo indietro per le tante “misure coraggiose” di cui Monti doveva farsi portatore.

Non avrebbe sanato l’intero debito, ma avrebbe di sicuro contribuito in modo pesante e avrebbe riportato un briciolo di quella Giustizia Sociale che ormai manca da fin troppo tempo.
La tassazione sulle rendite finanziarie ha senso se si arriva almeno alla stessa tassazione che paga un qualunque precario (almeno il 23%, la prima aliquota IRPEF). Uno speculatore non può guadagnare più di quelli su cui specula.

Andavano ridotti i privilegi e magari gli stipendi dei parlamentari (il fatto che Monti rinunci al suo e a quello del ministro dell’economia, che è sempre lui, è un bel gesto che diventa inutile se non viene imitato da tutti gli altri). Abbiamo i parlamentari più strapagati d’Europa e non perché sono i più bravi.

La reintroduzione dell’ICI (o IMU) sulla prima casa, poteva anche essere evitabile se avessero puntato intanto ad innalzare la tassazioni per chi di case ne ha più di una.
Ovviamente nessuno pensa neanche lontanamente di tassare i locali ad uso commerciale (strutture turistiche, alberghi, ospedali, centri vacanze, negozi) della Chiesa, né di far pagare imposte come l’IRPEF a preti e vescovi.

Di lotta all’evasione si parla sempre meno, così come di tagliare altre spese inutili (tipo quelle militari, che continuiamo a rifinanziare, perché gli aerei da guerra ci servono più del pane).
Inutili invece vengono giudicati gli assegni per gli asili nido e alcune esenzioni per le tasse universitarie. La solita dicotomia berlusconiana: chi c’ha i soldi studia, chi non ce li ha va nei campi (se li trova).

Le pensioni sono sempre il primo pensiero di quando non si sa dove mettere le mani. Così se tipo uno inizia a lavorare a 30 anni (ed è fortunato), se riesce a farlo in modo continuativo (oggi una rarità) per andare in pensione dovrà arrivare a 72. E se è vero che ci sono 70enni che fanno ancora le tournee da rockstar (vedi i Rolling Stones) ed altri che vivono di festini quotidiani, non è detto che tutti siano tanto fortunati da riuscire ad arrivarci in buona salute e per giunta a piedi (visti gli aumenti per la benzina).

Quindi cosa succede? Succede che si va in pensione sempre più tardi, quindi si liberano meno posti di lavoro e quindi la disoccupazione giovanile non cala.

Aumentare l’IVA è un altro autogol. In un periodo di recessione, tassare i consumi (nell’impossibilità di un aumento delle retribuzioni) vuol dire abbassare il potere d’acquisto e quindi limitare i consumi stessi. Questo blocca l’economia, anziché rianimarla.

L’impressione è che le dimissioni di Berlusconi siano state, più che un atto di responsabilità, la solita furbata. Si sapeva che c’era da sporcarsi le mani e quindi l’immagine, per cui ha preferito farsi da parte e lasciare il lavoro sporco ad un altro.

La paura è che in nome dell’emergenza si stiano spingendo tutti ad approvare la qualunque cosa, dimenticando che dopo il risanamento ci vuole una fase di rilancio che per adesso viene del tutto trascurata.

Se Berlusconi avesse fatto la stessa identica manovra, ci sarebbe un paese in piazza in questo momento.

Non ero fiducioso e per questo non sono deluso. Più o meno è quel che mi aspettavo.
C’è una cosa buona che è riuscita a Monti, riunire finalmente i sindacati in una protesta contro il governo.

venerdì 18 novembre 2011

Integrazione Sostenibile

Un po’ per caso, quella che doveva essere solo una piccola dimostrazione di solidarietà, si è trasformata in un impegno quasi quotidiano, che ha coinvolto, sempre più, i giovani della nostra comunità e di alcune vicine, volontari pronti ad assistere e ad aiutare dei loro coetanei provenienti dal continente africano.

Abbiamo voluto incontrarli, perché volevamo si sentissero accolti al meglio e perché volevamo sensibilizzare in qualche modo l’intero paese in opere di accoglienza ed assistenza e attirare l’interesse della comunità palazzolese sui migranti del centro di contrada Serrascimone.

Questa gente non è un pericolo, ma è fuggita dal pericolo. Non sono qui per delinquere, ma solo per cercare un transito per l’Europa.

Alcuni di loro hanno drammatiche storie alle spalle, hanno assistito al dissesto delle proprie famiglie, a causa di conflitti di natura politica, religiosa o etnica. Sono fuggiti prima in Libia e, allo scoppiare della guerra, sono giunti in Sicilia, attraverso il consueto “viaggio della speranza”.

Siamo rimasti colpiti ed emozionati dal loro desiderio di stare a contatto con la popolazione locale, a cui hanno detto sin da subito di non voler essere di disturbo, mantenendo l’impegno e sforzandosi di integrarsi con essa.

In questi mesi la nostra attività, nata come semplice voglia di conoscenza e di confronto con culture diverse, si è trasformata in una rete di rapporti di sincera amicizia e in un’esperienza, da parte nostra, d’arricchimento personale e umano.

Li abbiamo guardati negli occhi e abbiamo conversato a lungo con loro. Li abbiamo consigliati e ne abbiamo ascoltato i racconti quotidiani. Ci abbiamo scherzato e giocato insieme, li abbiamo portati fuori, in giro per la città e i dintorni.

Insieme ad altre organizzazioni, sono stati creati dei piccoli momenti di convivialità e intrattenimento e attività sportive, non trascurando l’aspetto dell’istruzione, la lingua in particolare, aiutandoli nell’iscrizione a dei corsi serali di alfabetizzazione, ancora in attesa di avvio.

Grandi sono state la loro voglia di socializzare con noi e l’affetto e la gratitudine che ci sono stati dimostrati, rendendo faticosa e commovente la separazione, per chi di noi è stato costretto ad andare via per motivi di studio.

Vorremmo fosse concessa ad ognuno di loro la possibilità di restare in Italia, magari proprio nella nostra comunità, con un’unica ragione che sia quella umanitaria.

Consideriamo queste persone come una potenziale risorsa per la nostra collettività, sia economica che culturale, e non come un peso.

Vogliono rendersi utili per la comunità che li ha accolti e restituire quanto ricevuto, hanno il desiderio di imparare bene la lingua, per poter dire tutto ciò che fino ad ora avrebbero voluto ma non sono riusciti ad esprimere.

Palazzolo Acreide, 5 novembre 2011

Concetta Caruso (Circolo S.E.L. Palazzolo)
Fabio Fancello (Circolo S.E.L. Palazzolo)
Marco Fancello (Circolo S.E.L. Palazzolo)
Ludovica Fazio
Eleonora Imbrò (Circolo S.E.L. Palazzolo)
Manuela Imbrò (Circolo S.E.L. Palazzolo)
Lucia Lenares
Daniele Lo Magro
Eliana Tavana (Circolo S.E.L. Palazzolo)

lunedì 17 ottobre 2011

La tessera del manifestante

Il 15 ottobre doveva essere una manifestazione di sfogo, una rivolta pacifica da parte di tanti, giovani e meno giovani, che si oppongono ad un sistema economico e finanziario da sempre comandato dalle banche, che non tollerano più politiche governative conservative di benefici per i privilegiati che preferiscono mortificare sempre le condizioni di chi meno ha e sempre meno continuerà ad avere. Per dignità e non per odio.

Non l’espressione di una parte politica in particolare, ma l’espressione di un disagio sociale che ha ormai portata planetaria.

In Irlanda, Spagna, in Cina e perfino negli Stati Uniti, questo tipo di protesta ha fatto scalpore per i suoi contenuti, per le sue motivazioni e per i messaggi diffusi. Quel “siamo il 99%” che ha fatto il giro del mondo, per rivendicare l’appartenenza ad un 99% della popolazione che si vede costretto a sottostare alla volontà di una minoranza esigua, che condiziona in modo ingombrante qualsiasi politica economica, di qualsiasi paese del mondo.

Doveva essere così anche in Italia, dove il disagio tra precarietà, disoccupazione e disperazione per le incertezze sul presente e sul futuro, non è certo inferiore a quello di altre parti del mondo. E in parte il corteo, come molti lo hanno raccontato, è stato composto da slogan, manifesti, balli e canti di protesta contro un sistema che è diventato insopportabile e insostenibile.

Ma l’Italia non è mai come gli altri paesi, nemmeno durante le proteste. L’arrivo di gruppi organizzati di violenti, infiltratisi e affiancatisi ai manifestanti pacifici, ha rovinato tutto.

Così si rivedono copioni vagamente simili a quelli di Genova nel 2001, a quelli della manifestazione studentesca del 14 dicembre dello scorso anno o alla Val di Susa.

Anche li, pur con le dovute differenziazioni, quartieri interi messi a ferro e fuoco, macchine in fiamme, vetrine distrutte e assalto ai bancomat. Anche lì le proteste, pur giustificabili e condivisibili, passate in secondo piano, inevitabilmente.

Straordinariamente l’arrivo delle forze dell’ordine, la “cavalleria” che doveva sistemare il tutto, è stato accolto con un applauso da parte dei manifestanti, che chiedevano solo di poter continuare tranquillamente il corteo in modo pacifico e festoso.

Ma il loro contributo si è rivelato insufficiente, a tratti anche confuso, forse perché mal organizzato o mal diretto. I violenti hanno continuato la loro opera, indisturbati.

Così sono gli stessi manifestanti, a proprio rischio e pericolo, a doverli respingere, quasi fosse per loro necessario spiegare “noi con questi non c’entriamo”. C'è chi ha rischiato e chi purtroppo qualcosa c'ha rimesso. Il risultato è quello già visto altre volte, si parla solo degli scontri e le ragioni della protesta passano in secondo piano.

Tutto grazie anche al solito pasticcio mediatico che caratterizza ormai questo paese da qualche anno. Più telegiornali seguono gli eventi, ma ognuno con i suoi preconcetti e le sue “preferenze” e chi non si sbilancia viene pure accusato di fornire un’informazione “di parte”.

La classe politica, quella contestata e quella partecipante, ha condannato in ogni modo ciò che stava accadendo.

Poi c’è sempre chi si crede più furbo ne approfitta per sentenziare frettolosamente che la colpa è sempre di alcune frange estremiste, dei centri sociali e delle forze politiche che avrebbero contribuito a riscaldare il clima, trasformando quel corteo in un’aggregazione di esaltati di un colore solo. Un'altra occasione persa per stare zitti.

Lo scopo è evidente, la piazza va sminuita, la protesta va generalizzata e in qualche modo i violenti gli hanno fatto anche un favore, semplificando il lavoro.

Viene a mente il lugubre e tristemente citato “metodo Kossiga”, utilizzato dall’ex Presidente della Repubblica ai tempi in cui era Ministro dell’Interno e che lui stesso ha ricordato in una delle sue ultime interviste nel 2008: Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno (…) Infiltrare il movimento con agenti pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto della polizia. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti all’ospedale. Picchiare a sangue, tutti, anche i docenti che li fomentano. Magari non gli anziani, ma le maestre ragazzine sì”.

Non c’è certezza che questi “suggerimenti” siano stati seguiti da qualcuno negli ultimi 10 anni, ma è evidente che il risultato di ognuna delle manifestazioni di protesta sia stato sempre compromesso, trasmettendo comunque un messaggio distorto.

I poliziotti lamentano la carenza di fondi e di unità, che secondo disposizioni dall’alto sono state colpevolmente ridimensionate. Anche da parte loro c’è la paura di restarci in mezzo e, senza la giusta tutela, anche gli interventi negli scontri sono limitati, per poi non essere costretti a pagarne le conseguenze.

Adesso è facile prevedere che i prossimi giorni saranno più le discussioni sui danni, sugli scontri e su chi sono i membri di questi gruppi organizzati, che sulla manifestazione in se e sui suoi messaggi.

Il circo fa ascolto e gli ascolti sono soldi. Il problema è che in questo momento al centro non ci sta il “99%”, ma ancora quell’1%, di cui i violenti hanno scelto di prendere, volontariamente o no, le difese.

Ci si interrogherà su cosa si poteva fare per evitare situazioni del genere, su chi ne ha le responsabilità, su quanto fossero conosciuti o meno i violenti e niente più. Magari il tutto diventerà pure il pretesto per un’altra legge restrittiva, magari una schedatura dei manifestanti come quella che già avviene per chi va allo stadio.

Il vero risultato, alla fine, è stato quello che è stato impedito a chi era lì di manifestare pacificamente. C’era chi voleva dire che c’è un modello di sviluppo che non va più bene, chi voleva rivendicare il diritto alla casa e l’istituzione del reddito garantito, chi rivendicava il diritto ad avere una vita dignitosa, chi era li per difendere i diritti civili e la cultura sempre più marginalizzati in questo paese. Ma è stato tutto oscurato da qualcosa che non c’entrava assolutamente nulla.

La piazza fa paura, perché non è controllabile né inquadrabile. La piazza non è una cosa che si può comprare. Quel che serve a chi vuole difendere i propri interessi è un pretesto per sminuirne o addirittura annullarne il valore. E, grazie ai violenti, il piatto è stato servito.