lunedì 17 ottobre 2011

La tessera del manifestante

Il 15 ottobre doveva essere una manifestazione di sfogo, una rivolta pacifica da parte di tanti, giovani e meno giovani, che si oppongono ad un sistema economico e finanziario da sempre comandato dalle banche, che non tollerano più politiche governative conservative di benefici per i privilegiati che preferiscono mortificare sempre le condizioni di chi meno ha e sempre meno continuerà ad avere. Per dignità e non per odio.

Non l’espressione di una parte politica in particolare, ma l’espressione di un disagio sociale che ha ormai portata planetaria.

In Irlanda, Spagna, in Cina e perfino negli Stati Uniti, questo tipo di protesta ha fatto scalpore per i suoi contenuti, per le sue motivazioni e per i messaggi diffusi. Quel “siamo il 99%” che ha fatto il giro del mondo, per rivendicare l’appartenenza ad un 99% della popolazione che si vede costretto a sottostare alla volontà di una minoranza esigua, che condiziona in modo ingombrante qualsiasi politica economica, di qualsiasi paese del mondo.

Doveva essere così anche in Italia, dove il disagio tra precarietà, disoccupazione e disperazione per le incertezze sul presente e sul futuro, non è certo inferiore a quello di altre parti del mondo. E in parte il corteo, come molti lo hanno raccontato, è stato composto da slogan, manifesti, balli e canti di protesta contro un sistema che è diventato insopportabile e insostenibile.

Ma l’Italia non è mai come gli altri paesi, nemmeno durante le proteste. L’arrivo di gruppi organizzati di violenti, infiltratisi e affiancatisi ai manifestanti pacifici, ha rovinato tutto.

Così si rivedono copioni vagamente simili a quelli di Genova nel 2001, a quelli della manifestazione studentesca del 14 dicembre dello scorso anno o alla Val di Susa.

Anche li, pur con le dovute differenziazioni, quartieri interi messi a ferro e fuoco, macchine in fiamme, vetrine distrutte e assalto ai bancomat. Anche lì le proteste, pur giustificabili e condivisibili, passate in secondo piano, inevitabilmente.

Straordinariamente l’arrivo delle forze dell’ordine, la “cavalleria” che doveva sistemare il tutto, è stato accolto con un applauso da parte dei manifestanti, che chiedevano solo di poter continuare tranquillamente il corteo in modo pacifico e festoso.

Ma il loro contributo si è rivelato insufficiente, a tratti anche confuso, forse perché mal organizzato o mal diretto. I violenti hanno continuato la loro opera, indisturbati.

Così sono gli stessi manifestanti, a proprio rischio e pericolo, a doverli respingere, quasi fosse per loro necessario spiegare “noi con questi non c’entriamo”. C'è chi ha rischiato e chi purtroppo qualcosa c'ha rimesso. Il risultato è quello già visto altre volte, si parla solo degli scontri e le ragioni della protesta passano in secondo piano.

Tutto grazie anche al solito pasticcio mediatico che caratterizza ormai questo paese da qualche anno. Più telegiornali seguono gli eventi, ma ognuno con i suoi preconcetti e le sue “preferenze” e chi non si sbilancia viene pure accusato di fornire un’informazione “di parte”.

La classe politica, quella contestata e quella partecipante, ha condannato in ogni modo ciò che stava accadendo.

Poi c’è sempre chi si crede più furbo ne approfitta per sentenziare frettolosamente che la colpa è sempre di alcune frange estremiste, dei centri sociali e delle forze politiche che avrebbero contribuito a riscaldare il clima, trasformando quel corteo in un’aggregazione di esaltati di un colore solo. Un'altra occasione persa per stare zitti.

Lo scopo è evidente, la piazza va sminuita, la protesta va generalizzata e in qualche modo i violenti gli hanno fatto anche un favore, semplificando il lavoro.

Viene a mente il lugubre e tristemente citato “metodo Kossiga”, utilizzato dall’ex Presidente della Repubblica ai tempi in cui era Ministro dell’Interno e che lui stesso ha ricordato in una delle sue ultime interviste nel 2008: Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno (…) Infiltrare il movimento con agenti pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto della polizia. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti all’ospedale. Picchiare a sangue, tutti, anche i docenti che li fomentano. Magari non gli anziani, ma le maestre ragazzine sì”.

Non c’è certezza che questi “suggerimenti” siano stati seguiti da qualcuno negli ultimi 10 anni, ma è evidente che il risultato di ognuna delle manifestazioni di protesta sia stato sempre compromesso, trasmettendo comunque un messaggio distorto.

I poliziotti lamentano la carenza di fondi e di unità, che secondo disposizioni dall’alto sono state colpevolmente ridimensionate. Anche da parte loro c’è la paura di restarci in mezzo e, senza la giusta tutela, anche gli interventi negli scontri sono limitati, per poi non essere costretti a pagarne le conseguenze.

Adesso è facile prevedere che i prossimi giorni saranno più le discussioni sui danni, sugli scontri e su chi sono i membri di questi gruppi organizzati, che sulla manifestazione in se e sui suoi messaggi.

Il circo fa ascolto e gli ascolti sono soldi. Il problema è che in questo momento al centro non ci sta il “99%”, ma ancora quell’1%, di cui i violenti hanno scelto di prendere, volontariamente o no, le difese.

Ci si interrogherà su cosa si poteva fare per evitare situazioni del genere, su chi ne ha le responsabilità, su quanto fossero conosciuti o meno i violenti e niente più. Magari il tutto diventerà pure il pretesto per un’altra legge restrittiva, magari una schedatura dei manifestanti come quella che già avviene per chi va allo stadio.

Il vero risultato, alla fine, è stato quello che è stato impedito a chi era lì di manifestare pacificamente. C’era chi voleva dire che c’è un modello di sviluppo che non va più bene, chi voleva rivendicare il diritto alla casa e l’istituzione del reddito garantito, chi rivendicava il diritto ad avere una vita dignitosa, chi era li per difendere i diritti civili e la cultura sempre più marginalizzati in questo paese. Ma è stato tutto oscurato da qualcosa che non c’entrava assolutamente nulla.

La piazza fa paura, perché non è controllabile né inquadrabile. La piazza non è una cosa che si può comprare. Quel che serve a chi vuole difendere i propri interessi è un pretesto per sminuirne o addirittura annullarne il valore. E, grazie ai violenti, il piatto è stato servito.